I Quaranta Giorni Del Mussa Dagh

I QUARANTA GIORNI DEL MUSSA DAGH

Termoli Online
2 ottobre 2012
Italia

Nel 1915 ci fu, su scala minore rispetto alla Shoah, “appena 1.500.000
di vittime”, il primo genocidio del XX secolo: il governo “dei Giovani
Turchi”, che aveva preso il potere nel 1908, pianificò e realizzò
l’eliminazione dell’etnia armena, presente nell’area anatolica fin
dal VII secolo a.C. Secondo la memoria del popolo armeno e nella
stima degli storici, furono sterminati i due terzi degli Armeni
dell’Impero Ottomano; molti furono poi i bambini islamizzati e le
donne inviate negli harem. Il progetto di deportazione e sterminio fu
ideato e perseguito da “Unione e Progresso”, l’ala più intransigente
del Comitato Centrale del Partito dei Giovani Turchi, per mezzo
di una struttura paramilitare, l’Organizzazione Speciale (O.S.),
diretta da due medici, Nazim e Chakir. L’O.S. dipendeva dal Ministero
della Guerra e attuò il genocidio con la supervisione del Ministero
dell’Interno e la collaborazione del Ministero della Giustizia. I
politici responsabili dell’esecuzione del genocidio furono: Talaat,
Enver, Djemal.

Infine il mitico Mustafa Kemal, detto Ataturk, il padre della Turchia
laica e moderna, completò e avallò l’opera dei Giovani Turchi, sia
con nuovi massacri, sia con la negazione delle responsabilita dei
crimini commessi. La pianificazione avvenne tra il Dicembre del 1914
e il Febbraio del 1915, con l’aiuto di consiglieri tedeschi, alleati
della Turchia durante la prima guerra mondiale. L’obiettivo era di
risolvere alla radice la questione degli Armeni, in quanto popolazione
cristiana che guardava all’Occidente. Il movente fondamentale
era nell’ideologia panturchista dei Giovani Turchi, determinati a
riformare lo Stato su una base nazionalista, sull’omogeneita etnica e
religiosa. La popolazione armena, di religione cristiana, che aveva
assorbito gli ideali dello stato di diritto di stampo occidentale,
con le sue richieste di autonomia avrebbe costituito un ostacolo
opponendosi al progetto governativo. La motivazione principale del
genocidio, dunque, fu di tipo politico, l’obiettivo degli ottomani
era la cancellazione della comunita armena come soggetto storico,
culturale e soprattutto politico. Ma, come per la “soluzione finale”
degli Ebrei, non secondaria fu la rapina dei beni e delle terre degli
Armeni e ancora la rabbia livida che l’intellighentia del paese fosse
costituita proprio da intellettuali armeni, e poi da ebrei e greci,
anche loro nel mirino della distruzione in un secondo tempo e in modo
meno eclatante e scoperto.

Il 24 aprile del 1915 tutti i notabili Armeni di Costantinopoli
vennero arrestati, deportati e massacrati. A partire dal gennaio
del 1915 i turchi intrapresero un’opera di sistematica deportazione
della popolazione armena verso il deserto di Der-Es-Zor. Il decreto
provvisorio di deportazione è del Maggio 1915, seguito dal decreto di
confisca dei beni, decreti mai ratificati dal parlamento. Dapprima
i maschi adulti furono chiamati a prestare servizio militare e poi
passati per le armi; poi ci fu la fase dei massacri e delle violenze
indiscriminate sulla popolazione civile; infine i superstiti furono
costretti ad una terribile marcia verso il deserto, nel corso della
quale gli Armeni furono depredati di tutti i loro averi e moltissimi
persero la vita. Quelli che giunsero al deserto non ebbero alcuna
possibilita di sopravvivere, molti furono gettati in caverne e bruciati
vivi, altri annegati e oggetto di sevizie e crudelta indicibili e
incredibili: ai piedi dei bambini gli aguzzini inchiodarono ferri
da cavalli e a frustate ne incitavano la corsa. E basti come esempio
di ferocia.

Sicuramente meno conosciuto al grande pubblico è il fatto che
non tutti gli Armeni subirono la deportazione negli infuocati
deserti siriani, tra indicibili stenti e sevizie che ne causarono
lo sterminio. Seppure sporadiche, vi furono forme di resistenza
contro l’ordine di deportazione impartito dal governo ottomano. La
rivolta più significativa si svolse in quella che in eta classica
si chiamava Cilicia, una regione aspra e montuosa nel sud della
Turchia, prospiciente il Mediterraneo orientale, dinanzi a Cipro e
confinante con la Siria. Qui nell’estate del 1915 erano ormai giunte
le notizie sulla sorte che, gia dal precedente mese di aprile,
era toccata ai deportati di altre regioni della Turchia. Fu così
che sei villaggi armeni, ai piedi del massiccio del Mussa Dagh,
quasi all’unisono presero la decisione di non aspettare passivamente
l’ordine turco di deportazione e organizzarono la resistenza. I
pochi averi a disposizione furono utilizzati per acquistare in gran
segreto qualche fucile con relative munizioni. Quando a fine Luglio
l’ordine di partire, abilmente accompagnato da lusinghe e minacce,
divenne esecutivo, gli Armeni, circa cinquemila persone compresi
vecchi, donne e bambini, con le povere masserizie che era possibile
portarsi al seguito, salirono in montagna, sul Mussa Dagh, dando vita
ad un’intrepida resistenza.

Ebbe così inizio una vicenda umana di straordinaria intensita,
descritta per la prima volta negli anni ’30 sotto forma di romanzo da
Franz Werfel, nel libro “I quaranta giorni del Mussa Dagh”, stampato
per la prima volta a Berlino nel 1933 e tradotto per l’Italia nel 1963:
bellissima l’edizione in due tomi della Medusa -Mondadori che lessi
con commozione negli anni Settanta, scoprendo ciò che ancora oggi la
Turchia nega recisamente, nonostante sia stato finalmente denunciato
al grande pubblico dagli scritti di Antonia Arslan (es. La Masseria
delle Allodole). Tra l’altro, la Francia, dove si rifugiarono molti
superstiti armeni, è la più fiera oppositrice all’ingresso della
Turchia nell’Unione Europea, almeno fino a quando i Turchi non
riconosceranno e dichiareranno che, quello degli Armeni nel 1915,
fu genocidio programmato a tavolino e realizzato con ferocia, fino
in fondo.

Austriaco ed ebreo, Franz Werfel visse tra Berlino e Vienna; per
sfuggire alle persecuzioni naziste, nel 1938 riparò in Francia;
internato in un campo di concentramento, riuscì a raggiungere gli Stati
Uniti, dove morì nel 1945. I 40 giorni del Mussa Dagh è l’opera più
significativa che egli abbozzò nel marzo del 1929 durante un soggiorno
a Damasco: la vista dei profughi armeni, soprattutto bambini, mutilati
e affamati, che lavoravano nelle fabbriche di tappeti, lo spinse a
riesumare coraggiosamente la memoria del genocidio degli Armeni.

Allora qual è la storia del Mussa Dagh? I Turchi all’inizio,
sottovalutarono l’ammutinamento armeno, ritenendo che, con i soliti
metodi di lusinghe e minacce, i fuggiaschi si sarebbero ritirati in
buon ordine. Ma non andò così: la montagna consentiva formidabili
ed inaccessibili rifugi; quando i soldati turchi, arrampicandosi
sui pendii, iniziarono ad attaccare le postazioni armene, trovarono
ad accoglierli un’intrepida resistenza fatta di un debole fuoco di
sbarramento delle poche e imprecise armi, ma soprattutto il coraggio e
la disperazione degli uomini, che per più volte ricacciarono i Turchi
e i loro cannoni dal Mussa Dagh. Con pochissimi viveri a disposizione,
gli Armeni affidavano al Dio cristiano e alla sua Vergine Madre la
speranza di salvezza, annichiliti dalla paura e dagli stenti. Donne
e ragazzi parteciparono alla resistenza, chi curando i feriti e
provvedendo ai viveri, chi portando ordini e notizie da una cima
all’altra. Non mancarono le giovani donne che impugnarono i fucili,
pronte a cadere sotto il piombo nemico, piuttosto che diventare schiave
e concubine dei musulmani. Questa, infatti, era la sorte ordinaria che
spettava alle giovani donne cristiane cadute prigioniere di guerra,
in pieno XX secolo! Le ripetute vittorie galvanizzarono i difensori,
comunque consapevoli delle enormi difficolta che li attendevano, prima
fra tutte la prospettiva di affrontare un nemico che di volta in volta
si presentava più numeroso ed armato. Le autorita turche avevano
infatti fretta di chiudere al più presto l’increscioso episodio,
prima che lo stesso assumesse rilevanza interna e, soprattutto,
internazionale. Proprio questa era invece l’unica speranza rimasta
per gli Armeni del Mussa Dagh: far conoscere alle potenze alleate,
allora in guerra con Turchia e Germania, la loro speciale battaglia per
la sopravvivenza. Per questo gli Armeni scrutavano il Mediterraneo
dall’alto delle loro cime a strapiombo sul mare, nella speranza
di vedere arrivare una nave amica. E la flotta amica, ai primi di
settembre del 1915, miracolosamente arrivò: erano navi da guerra
francesi, che pattugliavano la costa turca. Appena gli Armeni capirono
che quel puntino lontano perso nell’azzurro poteva essere una nave
alleata, issarono in cima al monte un grande lenzuolo bianco, con
una croce rossa cucita sopra. I Francesi compresero e raccolsero
una delegazione armena a bordo e, riconoscendo i meriti di quegli
straordinari combattenti, li considerarono subito alleati nella
lotta contro il comune nemico, e con le scialuppe trassero a bordo
i cinquemila, salvandoli da morte certa ed orribile.

Il romanzo di Werfel segue fedelmente questi fatti, ma opportunamente
inserisce un nucleo verosimile che da slancio e unita all’epopea
altrimenti vissuta da eroi anonimi. Ecco allora Gabriele Bagradian,
il protagonista, un armeno trapiantato a Parigi, uomo di mondo sposato
con una francese dalla quale ha avuto un figlio. All’improvviso gli
giunge la notizia che il fratello maggiore è gravemente ammalato ed
ha abbandonato la casa e i beni di famiglia per curarsi in Libano,
perciò la sua presenza è richiesta in patria. Parte con moglie e
figlio, gli eventi lo bloccano nella casa paterna, tra la sua gente,
gli Armeni, una minoranza cristiana tollerata nell’impero ottomano,
con cui fino ad allora la convivenza era stata pacifica. Gabriele,
da sempre estraneo ai problemi della comunita, pian piano ritrova le
sue radici e, poiche la sua famiglia ha sempre avuto una posizione
eminente nella societa, davanti ai soprusi dei turchi prende in mano
la situazione.

La moglie si estranea, il figlio segue le orme paterne, nel gruppo
entra Ikuhi, una ragazza accolta caritatevolmente in casa. La
situazione tra armeni e turchi si fa sempre più tesa, infine la
comunita decide di asserragliarsi sul Mussa Dagh, il monte di Mosè,
l’antica montagna dei padri, portando tutti i beni trasportabili e
dopo aver chiesto aiuto alle potenze occidentali.

Il nocciolo del romanzo è il racconto di questa resistenza ostinata
durata quaranta giorni, di ciò che accade al protagonista e agli altri,
uomini, vecchi, donne e bambini. La moglie di Gabriele si innamora
dell’unico occidentale presente nel gruppo, il greco Gonzague Maris,
che le propone di fuggire, ma il marito sorprende la tresca, il figlio
è ucciso durante una spedizione contro i turchi e lei si ammala. Il
greco fugge da solo. Davanti al fallimento della sua vita, Gabriele
riesce a mantenere l’equilibrio grazie all’affetto platonico che lo
lega a Ikuhi e al senso della responsabilita nei confronti della sua
gente. Il finale è agrodolce: i superstiti dell’assedio riescono ad
imbarcarsi sulle navi francesi giunte in soccorso, Gabriele si sente
svuotato, ormai non ha più scopi, torna per un ultimo saluto sulla
montagna dei padri, due pallottole turche mettono fine alla sua vita
mentre prega sulla tomba del figlio.

La casa editrice Corbaccio ne ha curato la riedizione da qualche
anno e il romanzo è un titolo notevole nel catalogo. Si tratta di
un romanzo importante, anche se certi passaggi oggi appaiono lenti,
ridondanti per il gusto moderno; ma è un romanzo che partecipa,
denuncia, affascina e coinvolge profondamente: del mite, raffinato
e coltissimo popolo armeno, perseguitato e disperso per il mondo,
può considerarsi un commosso canto epico, l’unico episodio positivo
che riguardò cinquemila anime, mentre cittadine e villaggi venivano
setacciati, gli Armeni maschi scovati e massacrati, i sopravvissuti,
in maggioranza donne di ogni eta e vecchi, avviati nella lunga marcia
verso il nulla infuocato del deserto siriano.

From: Baghdasarian

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