Nagorno Karabakh, il conflitto dimenticato

Il Sole 24 Ore, Italia
2 nov 2013

Nagorno Karabakh, il conflitto dimenticato

dal nostro inviato Roberto Bongiorni

AZERBAIJAN – Sono molti anni che Khosrov non dorme più nella stanza da
letto, su, al primo piano. L’ultima volta che i proiettili hanno
infranto i vetri conficcandosi nelle travi ha detto basta. Anche nel
cortile è meglio non indugiare. Lo suggerisce il cancello di ferro,
crivellato di colpi, o i fori da arma da fuoco sui panni stesi nella
zona più esposta. Il muro in cemento, eretto nel 2012, offre solo un
riparo limitato. Impensabile, poi, avventurarsi nei campi. Il
villaggio di Chirglay dista solo poche centinaia di metri dalla linea
di cessate il fuoco, e la casa dell’agricoltore Khosrov Shukurov ,71
anni, è la più vicina, solo 150 metri. I cecchini hanno gioco facile.
Negli ultimi 3 anni almeno 15 persone sono state ferite. Tra loro,
anche Sabina , la figlia di Khosrov.

Le montagne del Nagorno Karabakh si ergono possenti al di là della
piana arida. Khosrov le guarda con i suoi profondi occhi azzurri,
quasi volesse catturare l’aria fresca di quei monti ricoperti di
vegetazione: “Non me ne voglio andare -esclama -. Sono nato qui, e qui
voglio morire. Gli armeni sono venuti e se ne so no andati. Il Nagorno
Karabakh tornerà a far parte dell’Azerbaijan. E’ solo questione di
tempo”. “In questo villaggi – interviene la moglie – i morti si
seppelliscono la notte, per non essere dei bersagli”.

Se non fosse per i campi deserti, e un silenzio surreale, sembrerebbe
un’arida campagna come tante altre. Ma su questa linea di cessate il
fuoco, il fuoco non è mai cessato. Le sparatorie tra i due eserciti,
nascosti in trincee e in avamposti, avvengono con cadenza quasi
quotidiana.

La questione del Nagorno Karabakh, un verde fazzoletto di terra esteso
quanto l’Umbria, è ancora aperta. Nonostante l’accordo di cessate il
fuoco, firmato nel 1994 dopo un cruento conflitto durato due anni,
Azerbaijan e Armenia sono ancora tecnicamente in stato di guerra. E le
prospettive per una soluzione pacifica non sono incoraggianti.

C’è chi lo chiama il conflitto congelato, ma perché allora si spara?
Chi, ponendo l’accento sui rischi, preferisce definirlo conflitto
sopito, perché pronto a riesplodere. Chi, infine, vuole rimarcare il
disinteresse della comunità internazionale e lo descrive come “il
confitto dimenticato”. Volutamente dimenticato. Quasi che lo “status
quo” fosse di gran lunga l’opzione preferibile. L’Azerbaijan ,
tuttavia, non ci sta. Il Nagorno Karabakh, ripetono le autorità azere
fa parte dell’Azerbaijan. Va restituito. Così come i sette distretti
azeri occupati dagli armeni durante la guerra per creare un zona
cuscinetto tra il Nagorno e l’Azerbaijan. In totale, spiegano, è stato
sottratto quasi il 20% del territorio nazionale.

Nella capitale Baku ci riceve Novruz Mammadov, il consigliere del
presidente Ilham Aliyev per la politica estera. “I negoziati – ci
spiega – vanno avanti da quasi 20 anni. Nonostante gli sforzi e i
tentativi della comunità internazionale e dell’Unione europea non
siamo per nulla soddisfatti dei risultati finora raggiunti. Non posso
essere che deluso dall’atteggiamento dell’Unione Europea”

Così il conflitto congelato si è trasformato in una pace armata.
Sempre più armata. Grazie ai suoi ricchi giacimenti di petrolio e gas,
negli ultimi anni il governo azero ha dato il via a una pericolosa
corsa agli armamenti.

L’inusuale alleanza tra questo paese musulmano sciita, guidato da un
governo laico, e Israele, ha permesso a Baku di importare armamenti ad
alta tecnologia. Dal 2007 al 2011 – denuncia l’istituto Sipri con base
a Stoccolma – Baku ha speso 11 miliardi di dollari nell’acquisto di
armi. (il budget per la Difesa nel 2013 ha rappresentato il 13% di
quello complessivo). Paese molto più povero, anche l’Armenia, che sul
suo territorio ospita una base militare russa, sta facendo ogni sforzo
per accaparrarsi armi”. Nel mentre si continua a sparare. “Negli
ultimi 20 anni solo sulla linea del cessate il fuoco 1.250 civili sono
stati uccisi dai cecchini armeni”, spiega Elkhan Suleymanov., membro
del Parlamento azero incaricato di seguire la questione del Nagorno.

Sull’altro fonte anche gli armeni denunciano molte vittime ad opera
dei cecchini azeri. La ragione, ripetono, sta dallo loro parte.
L’etnia maggioritaria del Nagorno, precisano, è sempre stata armena.
In una guerra fatta di propaganda, dove il manicheismo è divenuto il
metro di ogni giudizio, è tuttavia molto difficile avere delle cifre
credibili.

In visita a Erevan e Baku nell’estate del 2012, il Segretario di Stato
americano Hillary Clinton commentò così gli scontri sulla linea di
cessate il fuoco che costarono in quei giorni la vita a otto soldati.
Parlando di conseguenze potenzialmente “disastrose e imprevedibili”
per la regione, la Clinton affermò: “Sono molto preoccupata per il
pericolo di un’escalation delle tensioni e per le morti senza senso di
giovani soldati e civili innocenti”.

Quella del Nagorno è una vicenda complessa, in cui sono coinvolti
diversi attori. Oltre ai due belligeranti – Azerbaijan e Armenia – tre
potenze regionali – Russia , Iran e Turchia – cercano di estendere la
loro sfera di influenza sul Paese del Caucaso, piccolo ma
stategicamente importante. (a partire dal 2019 l’Azerbaijan, oggi
primo fornitore italiano di petrolio, esporterà 10 miliardi di metri
cubi di gas in Europa attraverso il nuovo gasdotto Tap).

Ma c’è qualcosa di sicuro. Quattro risoluzioni del consiglio di
sicurezza delle Nazioni Unite (n° 822, 853, 874,884) che invocano il
ritiro delle forze armene da sei distretti occupati (Kelbajar, Agdam,
Fizuli, Jabrayl,Qubladi. Zangilan) sono state ripetutamente ignorate.

E’ un conflitto incancrenito, che si trascina dagli inizi del XIX
secolo. Ancora oggi gli azeri fanno risalire le origini delle tensioni
etniche al tempo dello zar Nicola I e alla sua decisione di insediare
comunità armene nel territorio del sud Caucaso in funzione
anti-ottomana e anti-persiana.

Determinante fu, quasi 100 anni dopo, l’azione dell’Unione sovietica.
Dopo esser stata conquistata dall’Armata Rossa nel 1920, la regione
del Nagorno venne annessa alla Transcaucasia. I bolscevichi la
promisero agli armeni, ma in seguito Stalin cambiò idea, probabilmente
per ingraziarsi la Turchia, e venne creato l’Oblast (“regione
amministrativa”) autonomo del Nagorno-Karabakh, a suo volta inglobato
nella Repubblica Socialista Sovietica Azera. Una decisione, protestano
ancora oggi da Jerevan, presa contro la volontà della maggior parte
degli abitanti del Nagorno, armena e di fede cristiana. Alla fine
degli anni Ottanta, quando gli armeni del Nagorno approfittarono della
disgregazione dell’Unione Sovietica per chiedere l’annessione
all’Armenia, le tensioni riesplosero. Gli azeri si rivolsero
all’Unione Sovietica per bloccare la secessione. Da Mosca nessuno fece
nulla. Scoppiò la guerra , che ufficialmente si è combattuta tra il
1992 (quando il Nagorno-Karabakh autoproclamò la nuova repubblica), e
il 5 maggio del 1994 (quando venne firmato l’armistizio). Il bilancio
fu di 30mila vittime e un milione di profughi (in grande maggioranza
azeri). Da allora i diversi negoziati tra i due paesi non sono andati
a buon fine.

“Abbiamo detto agli armeni – ci spiega Mammadov – che siamo pronti a
concedere al Nagorno Karabakh il più alto livello possibile di
autonomia. Assicureremo stabilità e sicurezza per tutti gli abitanti.
Ma il Nagorno Karabakh e l’Armenia continuano a violare le leggi
internazionali e non riconoscono i confini internazionali”.

Eppure la via negoziale ci sarebbe. I principi definiti a Madrid nel
2009 erano stati accettati in sostanza dai due belligeranti, divisi
però sulle modalità e sui tempi di implementazione. I sei punti
prevedono loa restituzione all’Azerbaijan dei territori che circondano
il Nagorno Karabakh, uno statuto provvisorio per l’enclave armena con
un corridoio che la collega direttamente all’Armenia, un referendum in
cui le popolazioni del Nagorno Karabakh possono esprimere liberamente
la propria volontà, il ritorno dei rifugiati ai luoghi originari di
residenza e una missione internazionale di mantenimento della pace a
garanzia della sicurezza delle operazioni.

Ma da allora tutto è fermo. Ad Agdam, uno dei sette distretti azeri in
parte occupati dalle forze armene, incontriamo il vice-governatore
Gasimov Zulfy, “44mila dei profughi provenienti da questa regione sono
ancora sparsi per il paese. Questa distretto agricolo ha perso il suo
territorio. Nelle terre occupate gli armeni controllano le nostre
risorse idriche. E chi sulle zone del confine si ostina a coltivare,
lo deve fare la notte a causa dei cecchini”.

Le risorse idriche sono un’emergenza più a nord, in un’altra provincia
occupata Tartar. La regione prende il nome dall’omonimo fiume, ormai
ridotto a un rigagnolo essiccato. Qui ci riceve Elkhan Suleymanov. Da
alcuni anni sta profondendo ogni sforzo perché la Comunità
internazionale prenda in considerazione la situazione del grande
bacino idrico di Tartar. Costruito nel 1976, la grande diga alta 125
metri è sotto il controllo delle forze armene. “Questa riserva di
acqua è sotto occupazione da 20 anni Abbiamo seri motivi per pensare
che non sia stata fatta alcuna manutenzione tecnica. Si rischia un
disastro ambientale di proporzioni immani. Se dovesse crollare, più di
30 villaggi verrebbero sommerso un territorio dove sono presenti 30
grandi villaggi, abitato da 400mila persone. Senza contare che, al di
là dei gravi problemi legati all’agricoltura, l’intera regione soffre
di problemi legati alla mancanza di energia idroelettrica”.
Toni bellicosi, che non preludono a nulla di buono. Per quanto non
sembri desideroso di scatenare un conflitto che avrebbe gravissime
conseguenze sulla sua economia, l’Azerbaijan considera la guerra
un’opzione aperta per riconquistare il Nagorno. E continua ad
acquistare munizioni. Nessuno se lo augura, ma in uno scenario ormai
incandescente, il conflitto dimenticato potrebbe nuovamente
riesplodere.

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