Armenia, paura di perdere la pace [Armenia: Fear of Losing Peace]

Osservatorio Balcani e Caucaso, Italia
15 maggio 2012

Armenia, paura di perdere la pace
[Armenia: Fear of Losing Peace]

Una delegazione del Parlamento europeo si è recata in Armenia per
parlare dei nuovi accordi di associazione con l’UE. Ma a Yerevan, il
tema numero uno resta sempre il Karabakh. Il racconto di Paolo
Bergamaschi, Consigliere per gli Affari esteri del Parlamento europeo

Delle decine di gruppi razziali e comunità etniche che popolano la
Georgia, quella armena è una delle più numerose e forse meno tutelate
in termini di diritti. Le forze nazionaliste al governo a Tbilisi
sono, da anni, intente a cementare un forte spirito ed una identità
nazionale a scapito delle minoranze mentre le autorità di Yerevan non
hanno alcun interesse a sostenere le rivendicazioni dei propri
connazionali con il rischio di creare un focolaio di tensione con uno
dei pochi paesi amici o, almeno, non ostili della regione.

A causa della chiusura delle frontiere con Azerbaijan e Turchia la
Georgia rappresenta per l’Armenia un corridoio terrestre
indispensabile per il commercio estero, in particolare con la Russia,
così come il porto di Batumi è il tradizionale punto di accesso al
mare per le merci armene esportate via nave. In estate sono decine di
migliaia gli armeni che affollano le spiagge dell’Agiaria, sul Mar
Nero, con le strutture alberghiere della regione ristrutturate e
potenziate per far fronte all’incremento del flusso di turisti.

La strada che da Tbilisi porta a Yerevan è una delle più trafficate
del Caucaso. Completamente risistemata sul versante georgiano ha
subito importanti aggiustamenti anche su quello armeno, non
sufficienti, però, per garantire la scorrevolezza necessaria agli
ingombranti e obsoleti autocarri che vi transitano. Anche le
postazioni per i controlli doganali hanno subito da entrambi i lati
importanti interventi. Noto con piacere al mio passaggio
l’informatizzazione delle procedure di verifica dei passaporti
rispetto alle precarie pratiche manuali degli anni precedenti quando
le guardie di frontiera erano obbligate a trascrivere, nella penombra,
i dati personali dei viaggiatori su corposi registri dalle pagine
gibbose e sfrangiate. L’attraversamento della catena del Piccolo
Caucaso è sempre spettacolare e questa volta lo è ancora di più tra la
neve caduta abbondante, con i soliti mezzi in avaria abbandonati
chissà da quando sul ciglio della strada. Il soccorso stradale non
sembra molto efficiente da queste parti. Dall’ultimo passo lo sguardo
si apre a valle fino al lago Sevan, la più importante riserva di acqua
dolce dell’Armenia. Da qui a Yerevan, sul falsopiano, la via è breve.

Ottimismo e preoccupazione dal ministro degli Esteri armeno
Il ministro degli Esteri Edward Nalbandian ci attende, nervoso, nel
salotto ufficiale per gli ospiti del ministero. Sa che deve farsi
perdonare il rifiuto all’autorizzazione dell’attraversamento della
linea di contatto. `Non ci sarebbero stati problemi, da parte mia, se
foste passati da Stepanakert (il capoluogo dell’Alto Karabakh, ndr) in
Azerbaijan; nella direzione opposta non sono in grado di garantire le
necessarie condizioni di sicurezza’, sostiene con una certa
irritazione, `troppi sono ancora gli incidenti, tra cecchini e campi
minati’. `Forse è troppo presto per compiere un’azione di questa
portata’, aggiunge, `nonostante l’atmosfera positiva durante
l’incontro fra i due presidenti a Sochi nello scorso gennaio’. `So che
gli azeri si lamentano criticando la mancanza di progressi del
processo di pace ma vorrei sottolineare che sono già stati quindici i
vertici fra i due presidenti cui vanno aggiunti almeno quaranta
incontri a livello di ministri degli Esteri’, osserva, `ed è sempre la
controparte azera che, alla fine, rifiuta di sottoscrivere ulteriori
accordi come, per esempio, quello sul meccanismo di prevenzione degli
incidenti lungo la linea di contatto’.

Per quanto riguarda le relazioni con l’Unione Europea Nalbandian
manifesta il suo ottimismo rimarcando come i negoziati del nuovo
accordo bilaterale di associazione procedano a ritmo spedito. Non
sfugge, però, nella sua esposizione un malcelato disagio come
rappresentante di un governo consapevole di perdere terreno sul piano
internazionale mentre il potere di attrazione dell’Azerbaijan è in
crescita costante.

Il petrolio tira sempre, il mattone non più. Mentre i proventi degli
idrocarburi rendono immune l’Azerbaijan dalle turbolenze finanziarie
che stanno scuotendo l’Europa, l’Armenia deve far fronte ad una crisi
economica dovuta, in parte, al crollo del settore edilizio
protagonista del boom dei primi anni del nuovo secolo. A Baku è tutto
un susseguirsi di gru e ponteggi mentre a Yerevan i cantieri edili
hanno, in pratica, abbandonato il centro città.

Anche le cospicue rimesse della numerosa diaspora armena nella
Federazione Russa sono precipitate provocando una forte contrazione
del prodotto interno lordo appena attenuata da una parziale, timida
ripresa sostenuta dall’aumento dei prezzi dei minerali esportati, in
particolare ferro, rame e pietre preziose.

Intrappolata in un conflitto cristallizzato che non trova sbocco la
piccola repubblica caucasica avverte una crescente pressione politica
che va di pari passo con quella economica. Il mercato russo perde
colpi mentre quello europeo, che rappresenta quasi il 50% dell’export,
non si espande a causa dei limiti dell’attuale regime commerciale.
Poiché di pace non si vuole parlare si preferisce affondare la testa
nella sabbia come gli struzzi pretendendo che l’attuale situazione di
stallo possa procrastinarsi in eterno. Secondo le statistiche
ufficiali fornite dal governo la popolazione è stabile, attestata
attorno ai tre milioni di abitanti. Stime ufficiose, però, parlano di
un’inarrestabile emorragia con un flusso costante di persone in cerca
di fortuna presso parenti ed amici nelle comunità armene che risiedono
in Europa, Stati Uniti e Russia.

Nell’Armenia di oggi non c’è futuro. Tutti lo sanno ma nessuno ha il
coraggio di ammetterlo. Anche nella recente campagna elettorale nessun
leader politico ha avuto il fegato di rompere il muro dell’omertà
confessando in pubblico che senza un compromesso con l’Azerbaijan il
paese non ha le risorse per sopravvivere. Si bussa alla porta dei
russi per la sicurezza, degli iraniani per i rifornimenti energetici,
degli europei per l’assistenza economica. Proprio con l’Unione Europea
sono appena iniziati i negoziati per un nuovo accordo commerciale
destinato ad integrare l’Armenia nel mercato unico. Rappresenta,
probabilmente, l’ultima spiaggia per dare una concreta prospettiva di
sviluppo ad un paese impantanato tra le sabbie mobili di una regione
che non trova requie.

Lada e Suv
Le vecchie Lada sono ancora di moda a Yerevan. Il tempo, da questo
punto di vista, sembra essersi fermato. Contrariamente a Baku dove
imperversano Suv dalle carrozzerie ardite e sfavillanti nella capitale
armena sono ancora datati modelli di automobili, spesso sgualcite e
ammaccate, a farla da padrone. Va osservato che, comunque, sembrano
resistere bene alle rigide temperature invernali della capitale.
Situata su di un falsopiano a quasi mille metri di altezza Yerevan
anche fra i cumuli di neve non mostra particolari problemi di
traffico. Muoversi fra i vari ministeri, sebbene ubicati tutti in
posizioni centrali, non è così complicato come in altre capitali
grazie anche ad un impianto urbano relativamente moderno.

La corruzione fra i poliziotti incaricati di controllare la
circolazione, mi dicono, si è ridotta drasticamente in seguito
all’installazione di telecamere in corrispondenza delle postazioni
abituali. Ai lati delle principali arterie si stagliano, ovunque,
oltre a quelli dei leader di partito, i manifesti pubblicitari del
rinomato brandy locale la cui produzione negli ultimi anni ha avuto un
notevole impulso. Di politica la gente non vuole sentire parlare.
Secondo tutti i sondaggi, a questo proposito, la fiducia nei partiti è
addirittura più bassa che in Italia. L’attenzione si desta solo quando
si parla di Nagorno Karabakh. Allora gli animi si surriscaldano e
irrompe l’irrazionalità. Occorrerebbe, forse, una terapia
psicoanalitica di massa per reintrodurre nell’agone politico un minimo
di analisi logica ma mancano i presupposti oltre che esperienze
consolidate in merito.

Sargsyan parla (solo) di Karabakh
Non cambia la litania con Serzh Sargsyan, il Presidente della
Repubblica, che dopo un caloroso benvenuto affronta con fermezza i
temi del conflitto scagliandosi contro i tentativi dell’Azerbaijan, a
suo dire, di cambiare il formato ed i principi del processo di pace.
`È assolutamente ridicolo quello che gli azeri dicono della Francia in
relazione alla legge sul riconoscimento del genocidio armeno così come
la lista di prescrizione in preparazione nella capitale azera nei
confronti di coloro che si recano in visita nell’Alto Karabakh’,
aggiunge, `se non ci sono stati progressi la colpa è solo di Baku e
non della diplomazia internazionale’. Sargsyan, in linea con la
strategia adottata dal suo paese, pone l’accento sulla necessità di
dare l’ultima parola alla popolazione che risiede nell’enclave
montagnosa sottolineando che nulla può essere deciso senza il consenso
di questa. E rivolgendosi ad un euro-deputato tedesco della
delegazione non manca di osservare come la Germania si trovi nella
condizione migliore per capire come ci si possa sentire in un paese
diviso.

`L’Armenia ha fatto in Nagorno Karabakh quello che l’Europa ha fatto
con il Kosovo’, attacca, `se la Serbia ha perso ogni diritto sul
Kosovo lo stesso tocca all’Azerbaijan nei confronti del Nagorno
Karabakh’. Tanta è l’enfasi del presidente armeno sulle ragioni del
suo paese che tralascia colpevolmente, nel limitato tempo a
disposizione, tutte le tematiche che riguardano gli sviluppi nelle
relazioni con l’Unione Europea che in origine dovevano rappresentare
il fulcro del colloquio. `Siamo disponibili a concessioni ma non ad
una capitolazione’, conclude nel congedarsi, visibilmente contrariato
dallo scambio di battute con interlocutori che si aspettavano qualche
apertura e lasciano trasparire la propria insoddisfazione.

Perdere la pace
Si può vincere la guerra e perdere la pace. Come affermato da Sargsyan
nel corso dell’incontro l’Armenia, durante la guerra, avrebbe potuto
conquistare ben più del venti per cento del territorio azero tuttora
occupato. Allora l’Azerbaijan era allo sbando con strutture statali
precarie, un bilancio pre-fallimentare ed un esercito disorganizzato e
scarsamente equipaggiato.

I russi dopo avere spalleggiato e rifornito le forze armene si sono
riconvertiti in pacificatori mediando l’accordo di cessate-il-fuoco
che ha ingessato il conflitto. In vent’anni, però, la situazione si è
ribaltata. I vincitori sul campo di battaglia hanno perso terreno sul
piano economico e politico mentre i perdenti iniziali hanno
monetizzato le ingenti risorse di idrocarburi trasformando l’oro nero
in prestigio internazionale ed influenza politica. Con il risultato
che l’Armenia è passata da una posizione di forza in cui avrebbe
potuto dettare le condizioni del processo di pace ad una di estrema
debolezza legata ai capricci di Mosca, grande protettrice e garante,
in ultima istanza, dello status quo. Più passa il tempo e più questa
situazione si accentua vanificando il vantaggio accumulato dagli
armeni ai tempi della guerra. Si comprende, pertanto, il disagio
manifestato dal governo di Yerevan ogni qualvolta si affronta la
questione dell’Alto Karabakh, come se si stia toccando un nervo
scoperto, come se un treno è partito e si è sbagliato stazione.
Dall’altra parte, a Baku, crescono, invece, autostima e autorevolezza,
nella certezza che il tempo gioca a favore dell’Azerbaijan.

Russia e Unione Europea
`I russi fanno solo il loro gioco’, mi confida Paruyr, un amico
armeno, `in passato, ci insegna la storia, si sono spesso rivelati
inaffidabili’. Nonostante la tradizionale alleanza con Mosca gli
armeni hanno ben presente di essere solo una pedina su uno scacchiere
complesso dove sono altri a decidere le mosse. Non basta essere
l’ultimo avamposto cristiano di fronte alla marea islamica, come sono
solite mettere in evidenza le autorità di Yerevan, per ottenere
credito e sostegno in giro per il mondo. Non rimane che l’Unione
Europea per dare respiro ad una politica parcheggiata ormai su un
binario morto e rianimare un’economia asfittica priva di sbocchi.

`Nessun imprenditore è disponibile ad investire in Armenia’,
sottolineano gli osservatori, `se non si ampliano gli orizzonti di
mercato’. E l’unico mercato possibile, allo stato attuale delle cose,
è quello europeo. Da un paio di anni Bruxelles ha messo a disposizione
della repubblica caucasica un programma di assistenza che prevede il
distaccamento di un gruppo di consiglieri dell’Unione nei principali
ministeri per facilitare il processo delle riforme in campo economico,
politico e giudiziario, come previsto da un piano di azione siglato
dalle due parti. A loro spetta il compito di traghettare l’Armenia
verso l’integrazione europea e, più in particolare, di trasformare
l’attuale sistema politico da una democrazia guidata, in cui l’élite
al potere rimane sempre al suo posto grazie ad elezioni spesso
fraudolente, ad una democrazia piena, in cui l’alternanza è possibile
a seguito di consultazioni libere ed aperte. È una sfida difficile
considerato il ruolo ingombrante degli oligarchi che ancora
monopolizzano e imbalsamano i punti nevralgici dell’economia e della
politica armena ma anche una scelta obbligata se si vuole dare una
reale opportunità di sviluppo al paese.

L’avvenimento politico più importante nella capitale, in questi
giorni, non è tanto la visita di una delegazione del parlamento
europeo quanto quella di una delegazione di deputati azeri arrivati
per la riunione della Commissione Sociale dell’Assemblea Parlamentare
`Euronest’ che raggruppa deputati dei sei paesi del `Partenariato
Orientale’ con quelli dell’euro-camera. Gli occhi della stampa e
dell’opinione pubblica sono tutti, ovviamente, puntati su di loro.
Decido per l’occasione di aggregarmi all’incontro.

Nelle sale austere del parlamento armeno tutto pare filare liscio.
Nessun accenno polemico nei discorsi di apertura da parte delle
autorità locali e nessuna parola fuori posto da parte della
consistente delegazione azera. Solo un piccolo incidente. Tra i posti
assegnati nei banchi ve ne è uno che riporta l’indicazione
`Rappresentante della Repubblica del Nagorno Karabakh’. Bastano, però,
le proteste informali, dietro alle quinte, degli sherpa della
diplomazia di Baku per fare rimuovere il cartello ed evitare che la
provocazione degeneri in guerra verbale.

Il regalo
Più tardi nella camera di hotel una nuova sorpresa. È costume da
queste parti per gli ospiti ricevere un piccolo dono in occasione di
conferenze e riunioni politiche. Anche questa volta trovo riposta sul
letto la classica bottiglia di cognac locale appoggiata, però, sopra
ad un voluminoso libro sulla presenza dei monumenti armeni nell’Alto
Karabakh. Superfluo descrivere i mugugni dei deputati azeri il giorno
seguente quando riprendono i lavori. Sono più i piccoli gesti che
contano o le azioni spettacolari? Il processo di pace, sulla carta, è
partito venti anni fa ma sembra di essere ancora alle fasi preliminari
in cui ci si guarda in cagnesco marcando il territorio. Tagliata fuori
da ogni ipotesi di sviluppo regionale l’Armenia si aggrappa al passato
incapace di scommettere sul futuro. Con un salvagente europeo in balìa
della tempesta.

*Consigliere per gli Affari esteri del Parlamento europeo

From: Baghdasarian

http://www.balcanicaucaso.org/aree/Armenia/Armenia-paura-di-perdere-la-pace-115953