La Guerra Nel Caucaso E L’Equilibrio Mondia

LA GUERRA NEL CAUCASO E L’EQUILIBRIO MONDIALE
Scritto da Giovanni Savino

FalceMartello
Roma Geovedi 23 Settembre
Italy

La crisi nel Caucaso, sfociata nella guerra d’inizio agosto tra
Russia e Georgia, è la conseguenza diretta delle manovre degli Usa
nell’Europa orientale e in Medio Oriente, volte a contenere le nuove
potenze emergenti (Russia e Cina su tutti).

Il sostegno garantito al regime di Tbilisi da parte
dell’amministrazione Bush non è una novita: la prima "rivoluzione
colorata" è stata inscenata grazie ai fondi americani in Georgia,
portando al potere Mikheil Saakashvili con un’elezione alquanto
discussa (96% dei voti) nel gennaio 2004, e da allora i legami con
Washington si sono rafforzati, così come la volonta di chiudere i
conti con le minoranze etniche secessioniste e con la Russia.

La Georgia: una "piccola bella democrazia"?

I milioni di dollari arrivati sulle rive del Mar Nero attraverso la
Fondazione Soros e il programma di partnership strategica con la Nato
hanno stimolato l’attivita revanscista di Saakashvili, il cui slogan
"La Georgia ai georgiani" è lo stesso della presidenza di Gamsakhurdia
a inizio anni novanta, quando l’Ossezia meridionale e l’Abkhazia si
videro abolire l’autonomia riconosciuta in epoca sovietica e scoppiò
un conflitto che portò l’intera Georgia alla guerra civile, guerra
nella quale la Russia intervenne a sua volta stabilendo poi un proprio
contingente in base agli accordi firmati nel 1994.

Il problema delle minoranze etniche in Georgia è stato causato
quindi dall’ultranazionalismo di Gamsakhurdia (che, ricordiamo, ha
anche appoggiato il terrorismo ceceno) e dalla sua riabilitazione da
parte di Saakashvili, intenzionato a risolvere la questione nazionale
armi in pugno.

La provocazione organizzata da Tbilisi l’8 agosto ha distrutto quasi
completamente Tskhinvali (la capitale osseta) e 1600 tra soldati
del contingente russo e civili sono morti, mentre circa 30mila
persone abbandonavano l’Ossezia per rifugiarsi in Russia. Le truppe
di Saakashvili si sono dirette verso il tunnel di Roki, principale
collegamento con la Russia, e hanno anche iniziato operazioni di
pulizia etnica, una pratica diventata tipica delle guerre caucasiche,
uccidendo persino intere famiglie nel sonno (da quanto trapela dalle
indiscrezioni sul rapporto Osce pubblicate da "Der Spiegel").

La controffensiva russa è stata veloce e spietata, isolando la Georgia
e occupando i centri principali di comunicazione, come Gori e Poti,
e l’entrata nel conflitto delle milizie dell’Abkhazia ha contribuito
all’avanzata delle forze russe fino a un passo da Tbilisi. Nel
frattempo Saakashvili si appellava all’Occidente, chiedendo di
intervenire nel conflitto, ma oltre all’invio di qualche aiuto
umanitario (e qualche carico di armi), nessuno era intenzionato a
morire per Tbilisi, dopo aver aizzato la sua classe dirigente contro
la Russia.

Violenze di ogni tipo sono state registrate, innescando così un
vortice di odio e terrore che difficilmente avra fine, anche perché
si creano false notizie volte a dipingere i russi come animali e la
Georgia un fortino dell’Occidente. Come sempre, gli intellettuali
prezzolati come Andrè Glucksmann e Bernard-Henry Levi hanno tuonato,
anche dalle pagine del Corriere della Sera, contro la barbarie russa,
paragonando l’attuale conflitto all’invasione della Cecoslovacchia
o dell’Ungheria. Questi maoisti pentiti provano a occultare il
loro passato di giovani estremisti assumendosi il ruolo di alfieri
dell’imperialismo, e distolgono lo sguardo ai crimini degli Stati
Uniti e dell’Occidente, ignorando anche ciò che ha scritto nei mesi
scorsi la Novaya Gazeta, il giornale dove lavorava Anna Politkovskaya,
a proposito dei metodi utilizzati da Saakashvili. Come ha sintetizzato
il londinese The Indipendent "gli americani hanno inviato coperte, gli
estoni medicinali, ma sicuramente sono i francesi ad aver soccorso
maggiormente le genti dell’Ossezia del Sud inviandogli il loro
‘nouveau philosophe’ Bernard-Henry Levy".

L’attacco georgiano è stato il culmine delle provocazioni continue
partite con la rivoluzione delle rose di fine 2003: ogni anno si sono
registrate tensioni tra Mosca e Tbilisi, con violazioni dello spazio
aereo, accuse reciproche di spionaggio con espulsioni di diplomatici,
e appelli all’adesione georgiana a Nato e Unione Europea.

Saakashvili in questi anni oltre a ricevere cospicui finanziamenti
americani (la sola Fondazione George Soros ha dato 42 milioni di
dollari al governo georgiano, così come la societa di relazioni estere
del consigliere di McCain ha ricevuto 900mila dollari da Saakashvili)
e aiuti militari israeliani, ha distrutto ciò che rimaneva dello stato
sociale georgiano: il paese "top reformer" della Banca Mondiale è uno
dei più poveri dell’ex Urss, migliaia di lavoratori sono disoccupati
a causa delle privatizzazioni, l’inflazione divora i salari da fame
e il governo è invischiato nella corruzione peggiore.

Questa "piccola bella democrazia" (parole di un ministro inglese) non
ha avuto esitazioni a reprimere con violenze di piazza le imponenti
manifestazioni antigovernative del dicembre 2007, così come a
incarcerare gli oppositori e qualcuno anche ammazzarlo. Il giovane
democratico Saakashvili in quell’occasione non esitò a proclamare la
legge marziale, e a far di tutto per tacitare le opposizioni, oscurando
i canali televisivi a lui non favorevoli e incarcerando gli attivisti
per i diritti umani, oltre a rinfocolare le ostilita con la Russia.

Quando c’è malcontento nel paese, un forte squilibrio sociale e una
situazione esplosiva, cosa c’è di meglio per la borghesia se non
ricompattare la nazione contro un nemico? Ed è questo quanto ha fatto
il presidente georgiano, dapprima accusando i manifestanti del dicembre
2007 di essere agenti russi e poi con la guerra di quest’estate.

La Russia e l’Unione Europea

Nell’est europeo e nel Caucaso negli ultimi anni stiamo assistendo
a una penetrazione incessante e senza freni da parte di Usa e Nato,
unita a una crescente russofobia da parte di alcuni governi, che
anche in questa crisi si sono distinti come fedeli cani da guardia
dell’imperialismo americano: dai Paesi Baltici impegnati a riabilitare
gli ausiliari delle SS e a discriminare le minoranze di etnia russa
(che in Lettonia e in Estonia sono prive di cittadinanza), alla Polonia
di Lech Kaczynski, in prima linea contro Mosca e strenua sostenitrice
dei piani americani dello scudo stellare.

L’ascesa della Russia negli ultimi anni è stata rapida e il ricordo
di un paese in ginocchio e sottomesso a Fmi e Banca Mondiale è ormai
lontano, offuscato dalla crescita economica e dalle esportazioni di gas
e petrolio che fanno di Mosca una potenza mondiale. Alcune avvisaglie
si erano avute col blocco del gas all’Ucraina negli scorsi anni, e con
le prese di posizione della diplomazia russa e gli interventi sempre
più duri da parte di Putin nei confronti della politica americana,
ma Mosca non aveva mai attaccato militarmente i paesi vicini.

Al progressivo e continuo accerchiamento condotto tra esercitazioni
militari, "rivoluzioni colorate" e scudi stellari, la Russia ha
risposto cercando nuove alleanze con la Cina, aumentando gli scambi
con alcuni paesi Ue (Germania e Italia su tutti) e riaffacciandosi
in America Latina, dove la Gazprom è entrata nel mercato energetico.

La moderazione espressa dalla Germania o dall’Italia nella crisi
caucasica non è dovuta quindi a ragioni di etica politica o
dall’amicizia tra Berlusconi e Putin, ma dai 57 miliardi di euro
di scambi commerciali tra Mosca e Berlino e dagli investimenti
Eni in Siberia. Il potere energetico di Mosca è enorme, e con la
costruzione dei nuovi gasdotti il Cremlino è riuscito a legare a
sé pezzi importanti del mondo politico europeo (l’ex cancelliere
tedesco Schroeder è il presidente del consorzio per la costruzione
del gasdotto Nord Stream) e a rendere impossibile le sanzioni, anche
perché potrebbe chiudere il rubinetto del gas lasciando al freddo
tutta l’Europa.

La mediazione di Sarkozy ha provato quindi a non scontentare nessuno,
e nello stesso tempo a smarcare l’Unione Europea dalla posizione
oltranzista americana, scontrandosi però con "l’altra Europa", quella
dei governi dell’Est filo-americani e timorosi della rinnovata forza
di Mosca. Questo dimostra ancora una volta come l’Europa sia divisa
al proprio interno dagli interessi contrapposti dei vari governi,
interessati non tanto alla liberta e alla democrazia e al benessere
dei propri popoli, ma agli affari con Usa e Russia.

Abkhazia e Ossezia del Sud dichiarano l’indipendenza

L’indipendenza del Kosovo a meta febbraio ha rappresentato l’apice
della strategia americana nell’Europa orientale, imposta e voluta
fortemente da Washington e dai suoi alleati sul continente. Il
rischio di un effetto domino su scala globale è stato ampiamente
sottolineato sul nostro giornale, così come avevamo scritto che
"la partita del Kosovo rappresenta un altro tassello dello scontro
crescente tra Russia e Stati Uniti, che non si attenuera nel futuro"
(L’indipendenza del Kosovo scatena nuove tensioni nei Balcani, Falce
Martello n° 208).

Ed è ciò che avvenuto nel delicato equilibrio caucasico, dove
l’Abkhazia e l’Ossezia meridionale hanno potuto rifarsi a questo
precedente all’indomani degli attacchi georgiani, e il riconoscimento
di Mosca alla loro indipendenza è la risposta alle pressioni di
Washington sul Kosovo e all’avanzata verso il Caucaso.

Ovviamente i due nuovi stati non hanno alcun futuro indipendente:
il 90 per cento degli abkhazi ha passaporto russo, mentre l’Ossezia
meridionale guarda da sempre ai connazionali dall’altra parte della
frontiera, quindi un assorbimento nella Federazione Russa non è da
scartare a priori, anche se Mosca in questa fase non ha interesse
all’espansione territoriale, ma piuttosto ad avere governi da essa
dipendenti ai propri confini.

Inoltre, l’indipendenza di due nazioni nell’ambito di una regione
etnicamente frammentata come il Caucaso può riaccendere il fuoco
dell’odio nazionalista dovunque: basti pensare al Nagorno Karabakh,
alla Cecenia, al Daghestan, all’Agiaria… insomma il rischio di
un’orgia di violenza da far impallidire le guerre balcaniche di meta
anni ’90.

La strategia degli Usa in difficolta

La reazione russa è stata sottovalutata dagli Stati Uniti, che
credevano di poter fare ingoiare ancora una volta l’ennesima manovra
volta a rafforzare la propria influenza ai danni di Mosca. Così non
è stato, e le reazioni isteriche dell’amministrazione Bush non sono
mancate, condite da minacce come l’esclusione perenne della Russia
dal Wto e l’espulsione dal G8.

Parole accolte in modo beffardo da Medvedev, che ha ribadito ancora una
volta che la Russia non è più quella di 10 anni fa, mentre l’invio
di 10 navi da guerra nel Mar Nero è stato così commentato da Putin:
"Risponderemo ma con calma e senza isteria".

Washington forse ha capito che il suo ruolo di gendarme globale
ormai è superato dagli eventi. Cerca di riaffermarlo in ogni modo,
provando a mostrare i muscoli ancora una volta e serrando le fila
dei suoi alleati, come dimostrato dalla firma polacca al protocollo
sullo scudo stellare.

Il timore americano è la possibilita di un blocco sino-russo, in
grado di destabilizzare ulteriormente l’equilibrio mondiale e di
poter costruire un’alternativa alla potenza economica degli Usa. La
dipendenza energetica dell’Europa e le impennate dei prezzi petroliferi
sono altri fattori che impensieriscono non poco gli americani, che
non riescono più a egemonizzare economicamente il mondo.

Gli unici alleati pronti a seguire Bush fino in fondo sono la Polonia,
l’Ucraina, l’Estonia, la Lettonia e la Lituania, oltre che la Georgia,
mentre Repubblica Ceca, Ungheria e Romania hanno scelto di restare
in secondo piano, vista la loro dipendenza energetica dalla Russia.

L’Italia, che nella vicenda georgiana ha provato ad avere una posizione
più "indipendente" da Bush, in realta comunque permette la partenza
di carichi d’armi da Camp Darby per la Georgia, mentre il controllo
logistico delle operazioni nel Mar Nero ed a Napoli e da Sigonella
partono gli aerei diretti a Tbilisi.

Ancora una volta la Nato dimostra non di essere un’organizzazione di
benefattori volta a salvaguardare la sicurezza europea, ma il braccio
armato del capitalismo americano.

La sinistra e la guerra

Per i lavoratori non esiste una borghesia "buona" da difendere
contro una "cattiva", né su scala nazionale, né su scala
internazionale. Questo è il nostro punto di partenza nel definire
il nostro atteggiamento verso la guerra.

L’imperialismo russo e l’imperialismo americano hanno la stessa
natura di oppressione, violenza e ingiustizia, ma alcuni grandi
teorici della sinistra non sembrano essere d’accordo: è il caso di
Heinz Dieterich, che il 16 agosto ha pubblicato su Rebelion.org un
articolo dall’eloquente titolo "Medaglia d’Oro per Vladimir Putin",
dove si incensavano le doti politiche e militari del premier russo.

Definire Putin uno stratega antimperialista e indicarlo come esempio
per i popoli dell’America Latina è quanto di più lontano possibile
da ciò che si chiama solidarieta internazionalista di classe. Vien da
chiedersi se, secondo questo eminente teorico del riformismo del XXI
secolo, in Russia esistano condizioni progressiste per i lavoratori,
o se la guerra possa portare a una svolta rivoluzionaria.

In dieci anni di governo, Putin ha portato avanti una linea ferocemente
antioperaia, mandando le forze dell’ordine a reprimere i lavoratori
in lotta, come nel caso dello sciopero dei lavoratori Ford di
San Pietroburgo del novembre-dicembre 2007, attaccando i diritti
sindacali e le condizioni di vita della classe operaia russa. Le
discriminazioni continue di cui sono oggetto nella Russia odierna le
minoranze etniche e lo sfruttamento a cui sono sottoposti i milioni
di lavoratori provenienti da altri stati dell’ex Urss, contribuiscono
certamente a fomentare l’odio verso Mosca.

In Russia il Partito comunistga (Kprf) e i sindacati non hanno perso
tempo ad appoggiare l’offensiva contro Tbilisi, sfruttando l’ostilita
diffusa verso l’imperialismo americano presente nella classe operaia
e nel popolo russo. Il pericolo di questa strategia politica consiste
nell’avvelenamento della coscienza di classe, nel permettere alla
classe dominante di sfruttare sentimenti onesti di solidarieta, ad
esempio contro le minoranze russe discrimiante nei Paesi baltici o
in Crimea, per diffondere il germe del nazionalismo e legittimare le
proprie ambizioni strategiche ed economiche..

C’è da dire anche che il segretario del Kprf Zyuganov, in
un’intervista pubblicata sul sito del partito, prende posizione
in favore del popolo georgiano, distinguendolo dalla cricca di
Saakashvili. Se questa posizione è corretta, resta però da capire
perché il Kprf appoggia in toto la politica estera del governo russo,
e non da oggi, e l’avventura caucasica.

I comunisti, ancora una volta, hanno il dovere di lottare e ribadire
la necessita di costruire un’alternativa alla guerra imperialista che
non si basi sull’appoggio a una delle due fazioni della borghesia
internazionale. La questione nazionale non si risolvera mai con il
capitalismo, il Caucaso multietnico è una polveriera potenzialmente
molto più pericolosa dei Balcani, anche per il fitto intreccio
di gasdotti e oleodotti, come il Baku-Tbilisi-Ceyhan, progettato
appositamente ai danni dei russi. Secoli di resistenza prima alle
invasioni ottomane e persiane, poi all’espansionismo zarista,
hanno portato allo sviluppo di un groviglio di odio e di tensioni,
culminate poi con l’invasione nazista (e la collaborazione di
migliaia di appartenenti ad alcuni gruppi etnici con Hitler) e con
le deportazioni staliniane, che hanno rinvigorito l’astio verso Mosca.

La politica bolscevica all’indomani del 1917 provò a garantire
i diritti nazionali a tutte le etnie, dando vita a una stagione
di fioritura culturale e sociale senza eguali, nota col termine
di korenizatsiya (indigenizzazione). Il potere sovietico doveva
essere "nazionale nella forma, socialista nel contenuto", secondo
la famosa frase di Lenin, e così fu fino al consolidamento del
Termidoro staliniano, che portò a una concezione del rapporto con
le nazionalita non-russe basato sullo sciovinismo e sulla vendetta
contro interi popoli.

La Georgia fu la prima vittima della brutalita di Stalin gia nel 1922,
quando l’intero Comitato Centrale bolscevico georgiano si dimise
per la violazione continua da parte di Ordzhonikidze e della cricca
staliniana dei diritti nazionali, causando così lo scontro con Lenin.

I risentimenti reciproci fra abkhazi, georgiani e osseti così
covarono sotto la cenere durante l’era sovietica, con tensioni
minori in Ossezia e molto più grandi in Abkhazia, per riesplodere
all’indomani del crollo dell’Urss.

Il carattere mafioso del capitalismo nei paesi ex-sovietici e
la creazione di vere e proprie zone grigie dove poter smerciare
armi, droga e denaro sporco contribuiscono non poco a complicare
ulteriormente la situazione gravando sulle spalle dei lavoratori
doppiamente oppressi.

Come comunisti riteniamo che l’unica soluzione alla questione nazionale
e alla guerra è l’abbattimento di questo sistema: il capitalismo,
la necessita di ricavare sempre più profitti, la corsa delle grandi
potenze all’occupazione di posizioni strategiche e militari, il cinico
gioco condotto sulla pelle e sulle aspirazioni nazionali dei diversi
popoli, rischiano nel Caucaso di aprire un baratro senza fine. Il
nazionalismo e lo sciovinismo, sia esso russo o georgiano, possono
avvelenare ancora una volta intere generazioni, permettendo al tempo
stesso di continuare l’arricchimento del complesso militare-industriale
e la morte di milioni di persone.

16 settembre 2008

Il socialismo può risolvere la questione nazionale, attraverso
una federazione dove ognuno possa esprimersi nella propria lingua,
coltivare la propria cultura e difendere la propria identita
senza dover avere il timore di essere discriminati, perseguitato
o deportato. L’espropriazione della borghesia e la solidarieta
internazionale possono gettare le basi per una nuova societa, senza
guerre e senza sfruttamento.

L’unica utopia è poter pensare che sia giusto morire per un pezzo di
frontiera in più, o in meno, e poterlo risolvere in questo sistema,
dove i lavoratori vanno a crepare al fronte o sotto le bombe, e la
Borsa continua a fare affari.

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