“Non uccidere” nel secolo del genocidio

La Stampa
July 28, 2004

“”Non uccidere”” nel secolo del genocidio

Tosatti Marco

Marco Tosatti ROMA Non uccidere: “”I dieci comandamenti””,
l’inchiesta televisiva di Luca De Mata, in programma oggi su Raiuno,
si occupa di quello che e’ stato forse uno degli imperativi piu’
disattesi nel secolo scorso. Una violazione che, adesso, sta tornando
ad assumere una veste religiosa, cercando in un dio la
giustificazione al delitto. Il secolo scorso e’ stato il secolo dei
genocidi: da quello armeno, perpetrato dal governo laico e agnostico,
anche se formalmente mussulmano, di Istanbul, e che uso’ anche l’odio
religioso anticristiano per i suoi fini, al genocidio rwandese, un
massacro etnico, di cui la puntata di oggi offre immagini inedite e
agghiaccianti.

Ma e’ naturalmente, per ragioni di attualita’ drammatica, sul
fenomeno del terrorismo suicida in nome di Allah che si fissa
l’obiettivo del regista, nel tentativo di comprendere le ragioni di
chi e’ disposto a sacrificare la sua vita, e quella di persone
innocenti, in nome di Dio. Un fenomeno sconosciuto, siano a qualche
anno fa; e che dopo l’11 settembre sembra sia diventato una delle
modalita’ belliche possibili nel mondo islamico (fino a quel momento
poche realta’ come quella delle “”Tigri Tamil”” lo praticavano. De
Mata ha raccolto voci discordanti, nel mondo che segue il Profeta. In
Burkina Faso, il responsabile dei giovani della moschea di Ouahigouya
ha detto: “”Io sono andato volontario in Iraq come tanti altri
giovani Islamici da tutto il mondo. Sono andato per fare la guerra.

Pronto a combattere e a morire, ma non certo a suicidarmi per
uccidere. L’Islam non chiede il suicidio-omicida. Spero che i
credenti musulmani e cristiani trovino la via della collaborazione””.

Non tutti sono d’accordo su questo punto; e per riuscire ad afferrare
la difficolta’ di una spiegazione, bisognerebbe comprendere con
quanta sofferenza nel mondo islamico viene vissuto il concetto di
“”thulm””, oppressione. Al Cairo Mohammed Abddullatif, un editore ha
dichiarato che “”il suicidio, come e’ detto sia nei Comandamenti che
nel Corano, e’ proibito. Ma ci sono dei casi particolari come, ad
esempio, in Palestina: i cosiddetti kamikaze. Proibire ai bambini di
andare a scuola, fermare la gente per strada, privare le persone del
necessario, tutto questo fa sentire ai palestinesi che non c’e’
speranza per il loro futuro. Non possono proteggere i loro figli.
Allora i palestinesi che vivono tutto questo sentono che per poter
proteggere la vita dei loro bambini, delle loro madri o dei loro
padri devono sacrificarsi e suicidarsi assieme ai suoi nemici. Fanno
questo per garantire la vita dei loro figli.

E’ per questo che non possiamo affermare che cio’ che fa un
palestinese e’ un omicidio o un suicidio. Egli pensa che in questo
modo protegge la vita degli altri e, sacrificandosi, da’ la vita agli
altri che soffrono””.

E’ solo l’esempio di un problema che e’ molto piu’ complesso di
quanto appaia a prima vista, e che vive di posizioni molto diverse,
come quella dell’imam Ibraim Reda, che dall’Egitto afferma: “”Noi non
siamo predicatori di terrorismo. Noi siamo predicatori di pace. Noi
tendiamo la mano agli Occidentali colti per costruire una civilta’
basata sul dialogo, cosi’ come qui in Egitto. In questo modo potremo
distruggere il terrorismo che nasce dalla poverta’ e
dall’oppressione””. Poverta’ e oppressione che sono largamente
alimentati dal Nord del mondo.

Un capitolo a parte e’ quello dedicato alla pena di morte legale;
praticata in molti paesi, e, nel mondo occidentale, anche dagli Stati
Uniti.

Richard C. Dieter, Direttore esecutivo del Centro sulla pena di morte
ricorda: “”Nei 25 anni da quando la pena di morte e’ stata
reintrodotta negli Stati Uniti 111 persone sono state trovate
innocenti e liberate dal braccio della morte, completamente
scagionate. Queste 111 persone erano credute da tutti colpevoli ed
sarebbero potuto essere giustiziate. E molte sono arrivate vicino all’esecuzione””.